La pratica dell’Aikido

Più di una volta al giorno mi chiedo e mi chiedono che cosa sia l’Aikido. Quando mi rivolgo questa domanda è soprattutto perché mi ritengo un cercatore, e credo che quando facciamo una ricerca sia importante avere chiara l’idea di dove si voglia arrivare. Allo stesso tempo però c’è qualcosa di sbagliato in questo porsi un obiettivo, perché in qualche modo chiude e restringe il nostro orizzonte, quando il nostro sguardo si fissa in un punto, è vero che raggiungiamo un maggiore grado di concentrazione, ma nello stesso momento non siamo più aperti, non siamo più disposti allo stupore, e cambiare, lasciare ciò che già conosciamo per lasciarci venire incontro qualcosa di nuovo, non è possibile. Certo esistono diversi livelli, per un principiante è importante avere chiaro che cosa si pretende da lui, ma da un certo punto in poi, se vogliamo raggiungere un certo grado di raffinatezza, è necessario essere disposti a sentire anche un semplice mormorio, e per quanto si possa crederlo questo non può avvenire se la mia volontà come un urlo procede in un’unica direzione. Come un uomo che scala una montagna e si ferma, con un animo aperto e sereno, stupito di fronte alla bellezza della natura, dobbiamo essere in grado di sentire l’eco più leggero. Cosa è quindi l’Aikido? Ora, in questo momento, credo sia soprattutto la pratica. Non la pratica di chissà quali esercizi esoterici, ma la pratica semplice, quotidiana. Quel lavoro sul tatami, e non, che ci porta a lavorare la stessa cosa con persone diverse, o con la stessa persona senza fermarsi anche per ore. Non parlo di una pratica passiva, ma di un lavoro con il proprio compagno che è disponibile ma attento, di un ripetersi di gesti all’apparenza meccanici ma fatto in modo vigile. Una pratica sul presente. Quale che sia il livello del compagno, la sua forza, la sua costituzione, è importante non uscire dalla pratica, parlare, insegnare, commentare ci portano fuori e non ci permettono di fare Aikido. Bisogna lavorare sulla traccia della tecnica offerta dall’insegnante, e affidarsi al ritmo, cadere e rialzarsi, osservare gli infiniti aggiustamenti che avvengono, le piccole differenze tra un’esecuzione e l’altra. Trovare il respiro, e soprattutto la forza. Non intendo quella fisica, che serve eccome, ma quella corrente che ci cattura e ci permette di non fermarci. Si deve intrecciare un rapporto di distanze, tempo, sensazioni con il compagno, e superare la rabbia, la paura e il dubbio diventa possibile. Quando la pratica ci porta al silenzio, che non vuol dire essere fermi e non fare rumore, ma il contrario, il movimento continuo che varia e ci trascina, allora lì da qualche parte comincia l’Aikido. Se si vuole “fare” Aikido, la pratica deve venire prima di tutto il resto. Parlare, sentirsi stanchi, provare resistenza ad andare agli allenamenti è comprensibile, sono cose che capisco e che faccio, ma bisogna vedere che tutto comincia con la pratica. Anche un libro scritto dal fondatore o da uno dei tanti geni che hanno sviluppato e fatto crescere l’Aikido vale meno di un’ora di pratica. Salire sul tatami e in modo sincero dare e ricevere senza interruzioni, ascoltando, lasciandosi a disposizione, conta infinitamente. Conta forse più di inseguire un grande maestro, perché se con sincerità lavorate con il vostro compagno, in quel momento, avrete già tutto il materiale su cui lavorare di cui potrete mai avere bisogno, indipendentemente dalla qualità dell’altra persona. Dobbiamo abbandonarci, lasciare tutto, e far si che la pratica diventi viva, non più un mezzo per giungere altrove, ma qualcosa dotata di un proprio valore, allora al suo concludersi potremo provare un senso sincero di ringraziamento.