Metodo didattico del maestro Fujimoto

Chi ha incontrato il maestro Fujimoto può essere rimasto colpito in particolare dalla sua tecnica, contraddistinta da movimenti ampi, netti, circolari, ed ho sentito spesso persone esaltare la bellezza estetica dei suoi gesti, ma chi ha seguito l’insegnamento del maestro, soprattutto negli ultimi dieci anni di attività, si sarà reso certamente conto che, oltre ad aver affinato il suo metodo di insegnamento, era andato soprattutto definendo un metodo formativo completo rivolto agli insegnanti ed agli allievi. Il maestro ha vissuto in Italia per quarant’anni, dal 1971, ed il suo proposito è stato di contribuire alla costruzione di quel ponte d’argento, evocato dal fondatore dell’Aikidō Morihei Ueshiba in un discorso tenuto per la prima volta fuori dal Giappone alle Hawaii, un ponte che fosse da collegamento tra la cultura giapponese tradizionale espressa nel Budō, la via formativa marziale, con la cultura Occidentale. Sono molti gli insegnanti giapponesi che insegnano ed hanno insegnato fuori dal Giappone, ma sono molti meno quelli che vivendo regolarmente in un paese occidentale hanno anche cercato di adattare il loro metodo di insegnamento agli allievi occidentali senza tuttavia compromettere i valori della cultura giapponese ed orientale. È importante comprendere che il metodo didattico del maestro Fujimoto non è una semplificazione o impoverimento della materia che costituisce l’Aikidō per renderlo più accessibile a tutti, ma un percorso impegnativo che, seguito, porta ad assimilare il pensiero giapponese arricchendo la nostra formazione fisica, culturale e spirituale.

Il legame honbu, Kisshomaru e Moriteru Ueshiba.

Il maestro ha cominciato a praticare Aikidō al club universitario ma ha ricevuto la sua impronta più importante all’hombu dōjō, la sede centrale internazionale di Tōkyō. I suoi principali insegnanti sono stati le colonne portanti di quel periodo che va dagli anni 60 ai primi anni 70, in particolare il doshū Kisshomaru Ueshiba e il dōjōchō Kisaburo Osawa. È in quegli anni che il corpus tecnico e l’insegnamento nell’Aikidō diviene strutturato e si viene a formare una generazione di shihan, maestri da ergersi a modello, che condividono la medesima formazione mantenendo la propria impronta personale. È grazie alla spinta ed al lavoro di quella generazione se l’Aikidō si è diffuso in tutto il mondo senza snaturarsi. Il maestro ha sempre riconosciuto l’hombu dōjō come il centro dell’Aikidō nel mondo, e soprattutto l’importanza del ruolo dell’attuale dōshū, chi custodisce e definisce l’insegnamento fondamentale, Moriteru Ueshiba. Ha anche spesso invitato i suoi allievi a recarsi in Giappone per avere un’esperienza di prima mano della pratica alla scuola centrale.

Gli altri insegnanti importanti

Un insegnante che con il suo metodo moderno ha lasciato un’impronta profonda nel maestro Fujimoto è stato il maestro Koichi Tohei, purtroppo dissidi con l’Aikikai hanno fatto si che Tohei abbia intrapreso un percorso separato dall’Aikikai, va però riconosciuto che la sua capacità pratica e accessibile di trasmettere gli insegnamenti è stata molto formativa per il maestro. Altri maestri importanti durante l’apprendimento in Giappone sono stati Masuda e Yamaguchi, e quando il maestro ha raggiunto l’Italia il maestro Tada.

Programma delle tecniche d’esame del 1975

Nella prima metà degli anni 70, quando il maestro aveva da poco raggiunto l’Italia, i maestri giapponesi residenti in Europa tra cui Tada, Chiba, Asai ed altri si ritrovano per definire una didattica che ponesse le basi anche per gli allievi occidentali, con le loro differenze culturali, di un percorso tecnico chiaro e solido. Ne deriva un programma di esami che è un vero e proprio piano di sviluppo secondo delle linee direttrici essenziali. Quel programma ha segnato, per il maestro Fujimoto, un importante impalcatura su cui strutturare il suo insegnamento.

Punti fissi e requisiti nei gradi di esame

Nel programma di esami le tecniche vengono introdotte grado per grado, progredendo in una scala di complessità via via maggiore, ma sempre come evoluzione progressiva delle tecniche base fondamentali, che i principianti devono studiare e assimilare fin dal primo giorno. È un percorso basato su una logica propedeutica, e per questo, nel momento dell’esame, alcune determinate tecniche sono un requisito fondamentale per dimostrare di stare progredendo correttamente nell’apprendimento dell’Aikidō. Gli esami non sono un’occasione per esibirsi in virtuosismi fini a se stessi, ma segnano sul percorso del praticante l’acquisizione di obiettivi intermedi necessari.

Cinque tecniche fondamentali

Le tecniche fondamentali sono cinque: ikkyō-shihōnage-iriminage-kotegaeshi-kaitennage, legate insieme dal kokyūhō che ne è alla base, ne fa da collante e da raccordo. La varietà degli attacchi a cui rispondere, più o meno elaborati, è solo uno stimolo a confrontarsi con questi cinque principi con punti di vista differenti e nuovi per riuscire a comprenderne l’essenza. Un lavoro di studio impostato su un’esecuzione consapevole anche di uno solo di questi principi offre possibilità di studio così ricche di stimoli da poter essere affrontato all’infinito senza noia.

Struttura ricorrente

Di grado in grado le tecniche più elaborate sono costruite intorno a quanto è stato stabilito nello studio delle tecniche fondamentali precedenti, vengono così introdotti nuovi attributi alla tecnica da affrontare ma allo stesso tempo viene rinforzato un nucleo fondamentale. Questo permette al praticante di organizzare in una struttura solida il proprio apprendimento ed anche di confrontarsi con tecniche che non conosce con un metodo e degli strumenti che può anche applicare da sé. È un punto molto importante, acquisire uno strumento che tramite l’analisi e la sintesi ci permetta di confrontarci con le tecniche nuove, piuttosto che imparare esecuzioni in modo mnemonico e sparso.

Keiko dell’allievo e dell’insegnante

Se nell’allievo il ricorrere di determinati elementi tecnici dona sicurezza e permette di apprendere senza confusione, i benefici per l’insegnante sono anche maggiori. Infatti questa struttura gli permette di organizzare lezioni aperte a tutti, principianti ed avanzati, in modo organico. Può costruire la lezione intorno a dei determinati movimenti che vengono affrontati e riveduti introducendo ogni volta stimoli maggiori e di complessità crescente. Condurre una lezione che risulti stimolante tutto il tempo, ricca di energia, e sia una valvola di sfogo per chi pratica è stata una delle capacità più importanti del maestro. Essere serio e leggero nel momento giusto, sottolineare ed alternare il piano fisico, tecnico e culturale ha trovato un punto di equilibrio soprattutto negli ultimi dieci anni di insegnamento del maestro.

Keiko ed allenamento

La parola keiko, che viene tradotta colloquialmente come allenamento, indica che quando noi compiamo un’attività acquisiamo un’esperienza, e forti di questa esperienza possiamo ripetere quell’attività in modo nuovo e migliore, in un processo continuo di acquisizione di competenza ed affinamento. Ma è anche vero che se la ripetizione continua avviene secondo la stessa modalità il processo diventa potenzialmente noioso, per questo il maestro variava la presentazione e l’esecuzione di una tecnica così che vi fossero sempre stimoli. Ed in particolare approfittando di seminari intensivi di più giorni proponeva anche tecniche molto avanzate, forte che la comprensione da parte dei praticanti di quanto si cerca al livello più alto offra una luce diversa sulle nozioni che si danno per già acquisite. Praticare le tecniche in modo più consapevole, ma anche nuovo, permette di progredire in modo più spedito, agile, e soprattutto divertente.

Uguale e diverso

Quando gli allievi affrontano una nuova tecnica la prima cosa che devono vedere, grazie alla spiegazione dell’insegnante, sono gli elementi comuni con le tecniche più base che hanno già studiato, e poi trovare quelle differenze che una volta risolte nella loro complessità riconducono la tecnica alla forma più conosciuta. Il maestro sottolineava spesso l’importanza di guardare per primo il movimento delle gambe e piedi perché danno lo scheletro del movimento della forma, e poi di osservare il movimento delle braccia e mani che sono peculiari di quella forma, ed infine vedere la tecnica nella sua totalità. È anche compito dell’insegnante non offrire la tecnica in un’unica spiegazione, ma presentarne i dettagli con spiegazioni che si alternano al lasciare lavorare gli allievi, l’insegnante deve essere capace di valutare la capacità e la velocità con cui gli allievi assorbono la proposta tecnica, non serve a niente inondargli di dettagli, come è controproducente tirare dritto come se avessero capito tutto.

Parlare la stessa lingua

Se insegnanti ed allievi lavorano su un programma ben strutturato, dove c’è chiarezza sui fondamenti della pratica e sulle modalità di esecuzione delle basi allora viene a stabilirsi un vero e proprio linguaggio comune con gli insegnanti e gli allievi di altri dojo. Questo permette di lavorare insieme su tatami condivisi, parlando la stessa lingua, e di creare un ampio network di amicizie, di scambi di conoscenza, e di ampliare gli orizzonti dei praticanti, e soprattutto di crescere qualitativamente e quantitativamente. Spendere tempo sul tatami e fuori con persone di provenienza diversa, ma con elementi in comune, fornisce stimoli e motivazione, e crea occasione di incontro ed interesse anche e soprattutto per i praticanti più giovani. Tenere stage condivisi permette agli allievi di lavorare sulle tecniche approcciandole con l’ottica di un insegnante diverso, perché una lingua comune non intende l’appiattimento dell’espressione personale ma avere un terreno comune da condividere.

Aggiornamento delle tecniche

L’organizzazione delle tecniche in una struttura basata su delle esecuzioni di base fondamentali ed un percorso progressivo non vuol dire che le tecniche restino sempre uguali. Prima di tutto perché è possibile migliorare la struttura stessa, cioè l’insegnante può prendere nota di alcune difficoltà che emergono frequentemente nelle tecniche piu avanzate ed anticipare l’introduzione di alcuni movimenti nelle forme base, così che l’allievo arrivi ad affrontare la tecnica avanzata avendo già fatto esperienza dei movimenti necessari. Poi perché un buon lavoro costante, innalzando la qualità media dei praticanti, permette di cominciare a confrontarsi con tecniche più avanzate prima, per esempio il maestro parlava spesso della possibilità di anticipare lo studio delle tecniche di hanmihandachi (dove chi riceve l’attacco è in ginocchio e chi lo porta in piedi, ed è un modo per confrontarsi in una condizione di estremo svantaggio fisico, paragonabile al combattere con un gigante). Non perché si abbia fretta di affrontare un curriculum per concluderlo quanto prima, ma per sviluppare da subito strumenti complementari alla nostra crescita. A questo va aggiunto che l’Aikidō è in rapporto osmotico con la società, e ne assorbe i mutamenti in modo naturale. Il maestro Fujimoto ci spiegava dei cambiamenti, negativi, che aveva riscontrato negli allievi dell’ex stato della Yugoslavia, di come dopo la guerra che aveva diviso il paese la loro pratica fosse diventata dura, e di come questo li avesse condotti lontano dall’idea di pratica che lui proponeva in quel momento.

Kihon come fondamentale, non come semplice

La parola giapponese kihon vuol dire fondamenta, e le tecniche che si affrontano nel 6° e 5° kyū (i due primi esami di Aikidō) sono il kihon dell’Aikidō. È importante aver chiaro che quando si parla di tecniche base non si vuole sostenere che siano semplici o “facili”, ma che sono fondamentali, cioè che, come per una casa, costituiscono la base della costruzione. Il maestro, rianalizzando il percorso progressivo delle tecniche di anno in anno, aveva introdotto nelle forme base una maggiore varietà nei movimenti, considerati necessari più avanti, così che il praticante lavorandoli con più frequenza li assimilasse meglio. Questo legare insieme tecniche base ed avanzate, il loro essere interdipendenti in “entrambi” i versi, è una caratteristica importantissima del metodo didattico del maestro Fujimoto ed ha assunto sempre più carattere negli ultimi anni. Non solo le tecniche avanzate sono costruite come sviluppo delle tecniche base, ma le tecniche base vengono corrette per dare ancora più slancio alle avanzate.

Lavoro di uke

Il progresso nello studio della tecnica non riguarda solo il ruolo di Tori (chi esegue la tecnica) ma in modo eguale anche Uke (chi attacca e poi in modo attivo riceve la tecnica). L’attenzione che il maestro pone sul lavoro di Uke è grandissima, e sotto alcuni punti di vista questo ruolo può essere considerato anche più formativo di quello di Tori. Non si esaurisce con un corretto attacco iniziale, ma continua esercitando una pressione costante su Tori, un movimento flessibile e reattivo. Uke tramite la sua risposta contribuisce a creare una connessione con Tori, è uno stimolo costante e permette alla tecnica di esprimersi fino alla conclusione. Questa risposta attiva aiuta e costringe Tori a restare concentrato in tutta l’esecuzione, e contribuisce allo sviluppo di una sensibilità reciproca nei due ruoli.

Vivo, connesso e sensibile

Se il lavoro di uke viene svolto correttamente allora la tecnica supera la componente strettamente marziale e diventa uno strumento per sviluppare qualità molto più importanti, specie se le vediamo nel contesto moderno. Connessione e sensibilità sono delle parole chiave dell’Aikidō, ma devono avere un’espressione fisica e concreta nella pratica. Lavorando con queste qualità la pratica ci aiuta a sviluppare energia vitale, ad entrare in relazione con l’altro su un piano non esclusivamente verbale ma più profondo e veritiero. Sapere che c’è sensibilità reciproca permette ai praticanti di avere maggiore confidenza e di superare paure e blocchi fisici, e gradualmente di lavorare sui propri limiti, diventandone consapevoli, per riuscire, esplorandoli pienamente, a superarli.

Giovani ed anziani

Il lavoro di uke ha una forte componente fisica, al punto che potremmo quasi dire che buona parte della componente atletica nell’Aikidō del maestro viene sviluppata dal prendere ukemi. È un lavoro che sviluppa la forza in modo sempre associato all’estensione ed alla flessibilità, ed ha come indirizzo l’apertura del corpo, con un forte riflesso anche sul piano mentale. Essere reattivi è legato anche alla capacità di essere ricettivi, morbidi anche mentalmente. È in questo modo che si può fare bene da Uke indipendentemente dall’età, certo i giovani posso e devono dare una risposta impetuosa fisicamente, ma anche per chi è più anziano conta prima di tutto rispondere, accettare il movimento, in un modo più proporzionato ma che può divenire pari a qualunque altro praticante, indipendentemente dall’età, focalizzandosi sulla sensibilità.

Longevità nella pratica

Porre l’attenzione sulla sensibilità reciproca, sulla morbidezza, e sulla ricettività ci permette di lavorare in sicurezza con il nostro compagno, di poterci costruire nel tempo gradualmente sul piano delle tecniche, waza, del movimento del corpo, taisabaki, sul modo fisiologico e corretto di ricevere leve articolari e proiezioni a terra, ukemi. La costruzione di un buon corpo, e il rispetto dello stesso, fosse il nostro o quello del compagno, estendono la longevità della nostra pratica, e questo vuol dire sicuramente progredire, ma anche poter lavorare con chiunque.

Senpai Kohai

Se riusciamo a figurarci la pratica anche come qualcosa che si sviluppa nel tempo, ed è una misura dell’esperienza acquisita, allora possiamo dare il giusto valore ai termini senpai e kohai, tipici della struttura gerarchica della società giapponese, che niente hanno a che vedere con il nonnismo come qualcuno li interpreta a volte. Senpai è chi ha cominciato a praticare prima di noi ed ha un’esperienza e a volte un’età maggiore della nostra, kohai è chi ha cominciato dopo, ha meno esperienza ma spesso anche più freschezza. Non si tratta di una gerarchia di potere, anzi si potrebbe dire il contrario, è una gerarchia di responsabilità. Il senpai ha il dovere di portare su, a traino, i praticanti più giovani, di condividere con loro la sua maggiore esperienza, il kohai deve fornire uno stimolo a continuare a crescere al senpai, perché il suo anelare ad imparare deve dare nuova energia, nuova spinta a chi è più avanti. Questo rapporto diventa una dinamo, dove sia il senpai e il kohai hanno un profitto, non è un’impalcatura di potere ma un movimento.

Uke, partecipe all’insegnamento

Quando un praticante più esperto, un senpai, lavora come uke per noi, allora, deve usare la sua esperienza per indirizzare l’esecuzione della tecnica. Questo non vuol dire che debba parlare, riempiendo lo sventurato di osservazioni, né che debba opporsi alla tecnica fino a quando miracolosamente venga vinta la sua resistenza. Vuol dire che fluendo nella dinamica della tecnica deve rendere il tracciato giusto più agevole. Questo vuol dire che diventa partecipe dell’insegnamento, in modo positivo, senza sostituire l’insegnante. Il maestro invitava continuamente i praticanti nei seminari a mescolarsi tra principianti ed avanzati, anche un avanzato può benissimo guadagnarci praticando con uno meno esperto se si cimenta ad aggirare le rigidità del principiante senza forzarle. Ancora una volta, se riusciamo a superare un’ottica egoista, torniamo al discorso sulla qualità media, al suo alzarsi, tutti, insegnante compreso, riescono a far progredire l’insegnamento.

Imparare come uke

La tecnica di Aikidō è qualcosa che spesso travalica il gesto meccanico che può essere osservato, è certamente molto importante rubare con gli occhi il più possibile, ma, a volte, per capire è necessario sentire la tecnica sul proprio corpo. Allora si può fare esperienza di quelle spinte, squilibri che nel contatto sono evidenti ma che da fuori non sono percepibili, sono sensazioni che ci educano e che trasformano il lavoro di uke in una forma più completa di apprendimento. Questo è di stimolo a lavorare bene come uke, perché migliorare in questo ruolo vuol dire diventare più interessanti per l’insegnante e i senpai, e quindi poter “rubare” ancora di più. Allo stesso tempo l’insegnante e i gradi esperti devono cercare di lavorare con più persone possibili, per lasciare più sensazioni dirette nei vari praticanti.

Ishindeshin

Questo termine nella tradizione buddhista Zen intende quella trasmissione, ai limiti del miracoloso, dell’esperienza del Satori, l’illuminazione, in modo quasi telepatico. Adottato nella cultura comune giapponese indica quel metodo di apprendimento, ad esempio del mondo degli artigiani, diretto, che avviene lavorando spalla a spalla, dove l’apprendimento non è solo verbale, nozionistico, ma soprattutto esperienziale. Riguardando i due aspetti del lavoro di uke, esposti sopra, si capisce bene come questi siano una forma pratica di tale modo di apprendere e di insegnare.

Sedersi avanti

Il maestro sottolineava, in modo molto ironico, che quando c’è una donna molto bella in qualche festa viene subito circondata da corteggiatori e spasimanti. Allo stesso modo se come allievi c’è un autentico interesse verso l’insegnante e la materia, diceva, è naturale sedersi avanti, anche in senso figurato, dove questo vuol dire seguire le spiegazioni con un alto grado di concentrazione. L’allievo deve cambiare il suo modo di pensare che lo spinge a riconoscere e a confrontare ciò che gli viene mostrato con quello che già conosce, deve esserci in quel momento specifico per vedere, sentire e provare quanto gli viene proposto. Per questo è molto importante avere una grande fiducia nell’insegnante, nel senso di essere capace di riconoscere la grande differenza che c’è sul piano dell’esperienza e della tecnica, per riuscire a sospendere il nostro comune senso critico ed essere in grado di accogliere in modo genuino l’insegnamento. Chi insegna non ci ordina cosa dobbiamo fare, ma ci mostra cosa è possibile fare, quali sono le potenzialità inespresse. In questa ottica, perché avvenga la trasmissione ishindeshin, intesa come scambio autentico di informazioni, è necessario che ci sia un moto verso, un anelito, una forma di attrazione magnetica di questo genere.

Ichi-go-ichi-e

La tensione reciproca tra insegnante ed allievo è un requisito necessario nell’insegnamento secondo il maestro, perché porta entrambi a dare il proprio massimo, ad essere aperti a un dialogo autentico che supera qualunque resistenza. L’insegnante condivide tutto quello che sa, l’allievo assorbe tutto quello che può, come una goccia di pioggia che cade e viene assorbita da un terreno arido. Per questo il maestro ricorreva spesso alla massima, sempre di origine buddhista, ichigoichie, che vuol dire che due persone sono consapevoli che si stanno incontrando in quella sola occasione in tutta la loro vita. Quell’unica occasione non può essere sprecata e va vissuta pienamente senza remore. La pratica va svolta con questo spirito, senza risparmiare energie, senza pensare ad un profitto nel futuro, ma essendo presenti uno all’altro con empatia, interesse, e pieno impegno. Ne consegue un ambiente dove spontaneamente emergono serietà e divertimento allo stesso tempo.

Insegnamento e pratica

È facile, normalmente, pensare che l’impegno maggiore spetti agli allievi, ma le considerazioni precedenti dovrebbero portare a una ben diversa conclusione. Prima di tutto l’insegnante di Aikidō, che di solito è anche responsabile di un dōjō ed un esaminatore, non è come un allenatore di calcio, non sta in panchina a dare direttive ai giocatori, è lui stesso un giocatore. Per insegnare Aikidō bisogna avere molta più conoscenza tecnica dei propri allievi, e si deve essere un praticante più esperto dei propri allievi. L’insegnante è un praticante attivo che continua a lavorare come Tori e come Uke, perché non è possibile sostenere la centralità del ruolo di uke in questo metodo se poi chi insegna ha smesso di prendere ukemi. Ancora oggi in molti ricordiamo una sessione di esami yudansha, gradi esperti ed insegnanti, dove il maestro sottolineò il punto mandando a casa buona parte degli esaminati dopo soli cinque minuti perché le loro ukemi erano insoddisfacenti. Riuscire a visualizzare la tecnica con chiarezza non solo nel ruolo dell’esecutore, Tori, ma anche di chi la riceve, Uke, è da considerarsi un requisito necessario per insegnare. Il responsabile di dōjō può essere considerato come il vertice della piramide senpai-kohai, che va ripetuto è una gerarchia basata sull’esperienza e la responsabilità, porta al traino tutti gli allievi, deve essere aggiornato ed avere una visione di quale indirizzo dare alla pratica perché sia solida ed attuale allo stesso tempo.

Insegnanti giovani ed anziani

Se un dōjō o gruppo è ben strutturato è naturale che somigli ad una piramide anche dal punto di vista quantitativo. I gradi più esperti saranno meno dei praticanti del livello precedente e così via, e questo dovrebbe essere naturalmente riflesso anche dall’età dei praticanti. Ci sarà anche una varietà nel corpo insegnante, ed è giusto che tra insegnanti più giovani ed anziani ci sia un approccio differente all’insegnamento. L’insegnante più giovane deve essere energico, proporre tanto lavoro fisico, parlare poco e mostrare molto, cimentarsi con tutti lavorando come tori ed uke il più possibile. Gli insegnanti più anziani devono condividere la loro maggiore esperienza, hanno potuto osservare il responsabile della didattica progredire per più tempo, devono poter fornire quei dettagli necessari ad affinare la tecnica e la pratica. A chi è la guida ultima della didattica spetta il difficile ruolo di coordinare tutte queste necessità, di lavorare sulla base con energia e determinazione, ma allo stesso tempo di affinare il lavoro tecnico, e di saper dare valore agli insegnanti, più anziani e più giovani, formandoli ed attribuendogli responsabilità.

Diventare più raffinato

Le tecniche sono degli strumenti, mediati dalla tradizione marziale, per poter crescere e costruirsi. L’Aikidō è qualcosa che va oltre la singola tecnica, ma allo stesso tempo non può prescindere dalla tecnica per poter essere esplorato. La tecnica è quindi fondamentale ma non deve diventare centrale, immutabile, stantia, è il contrario, la tecnica va sempre più lavorata, raffinata. Il maestro insisteva sempre su questo termine: “lavoriamo un po’ più raffinato”. Ad esempio quando arriva un attacco lineare come può essere uno tsuki, un pugno portato come affondo, le prime volte ci spostiamo dalla linea e pariamo, poi usciamo dalla linea e deviamo e così via fino ad arrivare a riuscire a cambiare la linea dell’attacco spostandoci sempre meno, perché accogliendola al momento giusto, con un timing raffinato, la si può deviare senza resistenza. Bisogna fare attenzione però a non trasformare la raffinatezza in artificio, in vezzo, ed anche il lavoro di uke, affinandosi non deve diventare preordinato, con attenzione non si deve smettere di lavorare in modo basico per conservare la solidità delle proprie fondamenta.

Chiamare

Il maestro aveva adottato questo termine con un’accezione a metà tra l’invitare ed il tirare per indicare il momento che uke, afferrandoci, veniva portato vicino il nostro centro, ed è tutt’ora adottato perché implica che entrambi i praticanti, Tori ed Uke, partecipano all’azione con la loro volontà, come in una conversazione telefonica, rispondendo l’un l’altro. Per questo si devono svolgere esercizi per comprendere come arriva la forza in ingresso, come possono essere katatetori nel lavoro a mani nude o kirikaeshi con il bokken. Si deve capire come allinearsi a quella forza come si fa in tenkanhō, o nella prima fase di suriage e surisage con il ken. Si deve capire come ridirezionare quella forza come si fa in kaiten o in assorbimento, in makiotoshi con il jo o in surisage con il ken. Per poter cambiare la direzione di uke nel momento del primo contatto dobbiamo riuscire a chiamare, ad assorbire Uke, e non è possibile farlo se spingiamo contro, o se respingiamo. Negli ultimi anni l’insegnamento del maestro è stato fortemente improntato a lavorare sull’assorbimento della forza di uke, e sulla fase successiva di reindirizzamento della sua energia. Tutto questo richiede un costante lavoro sulla sensibilità e sul timing e si basa anche sulla ricerca del giusto ritmo dove si esprimono in sintonia Tori ed Uke.

Armi

Nel curricula dello studio delle armi, jo e bokken, ci sono forme da seguire in coppia con il jo e con il ken, che il maestro Fujimoto ha in buona parte mediato dal lavoro del maestro Saito e Tohei, ma ci sono esercizi di base che come sottolineavamo hanno una valenza formativa maggiore. Per il bokken lo studio di shōmenuchi, yokomenuchi, kesagiri , i kirikaeshi, suriage e surisage e per il jo tsuki, jodangaeshi e makiotoshi è fondamentale per riuscire a costruire una corrispondenza con i movimenti a mani nude. Nello studio di questi esercizi di base a coppie è di interesse riuscire a trovare il ritmo giusto con il compagno, non si tratta di scuole tradizionali, orientate alla vittoria sul campo di battaglia e quindi alla tecnica risolutiva, ma di esercizi per trovare sintonia con il compagno, per creare quel contesto che sia sicuro, perché svolto con fiducia nel compagno, ma allo stesso tempo sia “rischioso”, perché la possibilità di essere colpiti da un’arma ci obbliga a restare concentrati ed attenti.

Seminari e pratica

I seminari sono un elemento importante nel metodo del maestro, banalmente perché erano l’occasione di formarsi con lui per chi non poteva praticare al dōjō dell’Aikikai Milano. Ma anche per molti altri motivi, che erano già importanti allora ma oggi hanno acquisito una valenza maggiore. Sono l’occasione per seguire nell’arco di una lezione più lunga ed intensa un filo, uno sviluppo didattico, che ci permette di mettere in collegamento le tecniche, sulla base di un principio, un movimento, un apparentamento. Grazie a questo sviluppo è possibile provare tecniche avanzate, e a volte anche tecniche “rare”, che non sono necessarie, ma sono spesso divertenti e curiose. Sono un’occasione importante per lavorare con gente nuova, che fa bene sia perché lavoriamo con gente diversa, le cui reazioni non conosciamo a memoria, sia perché ci permettere di conoscere persone nuove, stabilire nuove amicizie. Ci costringe a lavorare con più attenzione perché quell’ambiente di fiducia che abbiamo instaurato nel nostro dōjō richiede un grande impegno per essere esteso su un tatami grande e affollato, specialmente se ci sono persone provenienti da culture differenti. Un seminario intensivo può essere l’occasione per provare tecniche nuove, ma allo stesso tempo è sempre necessario rinnovare il lavoro su tecniche che non vanno mai dimenticate, ad esempio il lavoro in suwariwaza, le tecniche eseguite muovendosi in ginocchio, o anche le tecniche in ushirowaza, dove veniamo afferrati da dietro, che hanno un valore maggiore per la valenza costruttiva della pulizia e sensibilità.

Dieci anni

Il maestro diceva che è molto difficile assorbire tutte le tecniche presentate ad un seminario, ma che ogni volta si deve riuscire a portarne almeno una a casa. Le altre tecniche riaffioreranno al momento giusto anche dieci anni dopo. “Un giorno sul tatami mentre provate una tecnica direte Toh! ecco che voleva dire il maestro quel giorno”. Sinceramente a me pare che dieci anni siano il tempo minimo necessario ad inquadrare il lavoro del maestro come un metodo articolato sul piano tecnico e comportamentale. Mi capita spesso di pensare ad una frase apparentemente contraddittoria che gli sentii pronunciare in un seminario, rivolgendosi ad un allievo sotto la trentina che lavorava male, con molta foga, ripetendo la tecnica in modo coatto, gli disse: “tu puoi smettere di fare Aikidō, non capirai mai!”, il giorno seguente durante una spiegazione chiamò fuori un principiante sui sessant’anni, a cui aveva corretto prima la tecnica, e gli disse: “questo signore è un principiante, ora la tecnica non funziona, ma tra dieci anni avrà capito, magari sarà cintura nera. In dieci anni tutti possono capire!”. Per il maestro il modo con cui si praticava era centrale, lavorare in modo disordinato, cercando di arrivare ad una meta senza aver consultato una mappa e segnato un tracciato è inutile, percorrere invece un sentiero ben definito, segnato dal proprio maestro, anche lentamente ci porta infine alla meta.

Aikidō come forma culturale

Questo metodo, che il maestro ha proposto, è il frutto della cultura giapponese che il maestro ha cercato di diffondere. Ricevere l’insegnamento non dissezionando ed analizzando, ma assimilandolo nella pratica, l’idea di una ricerca di sintonia di gruppo tramite il sacrificio dell’ego e l’affermazione di un linguaggio comune, uno standard, affrontare prima l’aspetto esteriore di quanto proposto ed infine poterne condividere la materia più profonda, il passaggio dall’esterno, soto, all’interno, uchi, il rispetto e l’etichetta, rei, sono le radici della cultura giapponese. È importante però che questo aspetto culturale non venga affrontato sul piano intellettuale, per essere riduttivi in modo scolastico, ma che venga interiorizzato sul piano fisico, nella pratica.

Il metodo del maestro come educazione della persona

La mia interpretazione è che il metodo del maestro Fujimoto sia ancora malamente inquadrato come qualcosa di prettamente tecnico, o ancora più superficialmente apprezzato per la sua valenza estetica. Certo, la tecnica ne è una componente fondamentale, ma non tanto per il dettaglio quanto perché è strutturata, ed organizzata. E certamente i movimenti del maestro, nella loro ampiezza, pulizia, circolarità possono risultare belli, a seconda dei gusti per qualcuno di più, per altri meno. Ma, credo, che debba essere inquadrato prima di tutto come un metodo di lavoro e di relazione tra due persone. Un metodo che fa si che si stabilisca un ambiente dove c’è sicurezza ed allo stesso tempo ci sia la possibilità di sospingersi oltre e di esplorare aspetti della pratica più rischiosi. Lavorare con flessibilità, fisica e mentale, rispondere costantemente all’altro in modo che non sia mai “senso unico”, essere rispettosi dell’integrità fisica dell’altro e propria, mettersi pienamente a disposizione senza riserve, avere e dare fiducia al compagno, essere concentrati e presenti, sono gli elementi centrali. Questi elementi si completano con la fiducia nell’ insegnamento, che vuol dire sia fiducia nell’insegnante, sia nel lavoro che propone, perché nel tempo, a lungo andare, ci formano e costruiscono fino a permetterci, ad un certo punto, di poter camminare anche da soli, su tatami diversi, con insegnanti con metodi e tecniche diverse senza difficoltà ad adattarci.

Shizentai

Questo termine semplice, composto dalla parola natura e corpo, intende la capacità di muoversi in sintonia con la natura, in modo naturale. Io credo che il metodo del maestro, in accordo con il pensiero giapponese, sia teso proprio ad unire il percorso verso la meta con la meta stessa. Le qualità che costituiscono l’Aikidō del maestro Fujimoto sono le stesse qualità che dobbiamo usare, acquisendole gradualmente nella pratica, nello studio. Si tratta infine di un processo che aumenta se stesso, muoversi in modo naturale per diventare ed essere naturali.