Vincere o perdere contro una spada vera

Shinkenshōbu
真剣勝負

La traduzione letterale di questa espressione sarebbe: vero-spada-vincere-perdere, ovvero vincere o perdere con una spada vera. Per spada vera ci si riferisce ad una lama realmente affilata, non uno iaito (spada dal filo smussato che si usava e si usa nell’allenamento di kenjutsu), in grado quindi di assestare un colpo mortale. Da questo si arriva per traslato a “combattere in condizioni di vita o di morte”. In italiano si usa spesso l’espressione “questione di vita o di morte” per indicare una situazione di rischio così reale e grave il cui esito finale può solo essere la vita o la morte di chi vi ci si trova. In questa situazione diciamo spesso bisogna essere mortalmente seri, ma nel nostro caso sarebbe meglio dire “mortalmente” consapevoli. Osensei ha sempre insistito che nel vero Budo, a cui ascriveva l’Aikidō, non ci potessero essere forme di competizione, ancor peggio in forma sportiva, e che il motivo fosse proprio la condizione di shinkenshōbu. Una qualunque forma di competizione sportiva, anche la più cruenta come gli sport da combattimento, deve sottostare ad un regolamento che stabilisca un minimo di condizioni di sicurezza, così da preservare la vita di chi vi partecipa se i competitori rispettano le regole stabilite. Ma questo concetto è profondamente antitetico con quello di shinkenshōbu. Personalmente questa antitesi la trovo evidente ma per buona parte di coloro che si muovono negli sport da combattimento, o che si interessano e ruotano attorno al mondo della cosiddetta difesa personale non lo è altrettanto.
Shinkenshōbu vuol dire che qualunque azione può essere intrapresa restando però profondamente consapevoli che il suo peso va giudicato a seconda che il suo esito finale sia la vita o la morte, e quindi non ha senso sottostare o stabilire regole prefissate per convenzione o peggio per arbitrarietà. Il contesto sportivo non può appartenere a questa categoria di pensiero, e per Osensei non può far parte del mondo del budo, a quelle che in modo poco informato vengono chiamate arti marziali. Chi segue o partecipa agli sport di combattimento ritiene che queste forme di lotta siano le più realistiche possibili, la loro violenza, la fatica che richiedono, il rischio e gli infortuni che ne conseguono possono assumere questa valenza, ma se la prima cosa che viene esclusa, o si cerca di escludere, perché alla fine un incidente mortale può comunque avvenire, è il pericolo mortale allora questa lotta cosa significa? Lottare per sopravvivere quando si esclude in primis la morte è alla fin fine un gioco, violento pericoloso ma pur sempre un gioco. Vi faccio un esempio che secondo me ne è una chiara dimostrazione: i colpi da dietro. Non c’è sport di combattimento che ammetta colpi quando l’avversario vi rivolge la schiena, colpire volutamente la nuca ad esempio vi squalifica immediatamente, questa scelta ha permesso il proliferare delle tecniche di placcaggio, e di conseguenza quelle a terra. Quando si tenta un placcaggio ci si espone al rischio di una gomitata invalidante alla nuca, ma essendo tale colpo vietatissimo il placcaggio può solo essere contrastato con alternative meno efficaci e immediate, il che ne determina il suo uso “indiscriminato”. Non sono ammessi colpi agli occhi, alla trachea e ai genitali, e neanche leve alle dita, tutte zone troppo morbide o flessibili che riceverebbero danni irreversibili o invalidanti, questo ha avuto come conseguenza però la divisione per categorie di peso che è proporzionale alle “corazze” muscolari. Ma in quale lotta davvero realistica ci si divide per peso? La natura è la più chiara dimostrazione che la lotta per la sopravvivenza non opera tale distinzioni, anzi se discrimina lo fa con lo scopo opposto, per esempio tutti i predatori se possono attaccano gli individui più deboli.
Adesso non voglio sostenere che l’Aikidō sia più realistico degli sport da combattimento, anch’esso per un suo verso risponde ad un modo preciso di modellizzazione della realtà, con i suoi attacchi convenzionati, spesso vettoriali, il suo modo di ricevere le tecniche e di continuare ad agire che risponde ad una logica di amplificazione temporale ed estensione della sensibilità per permettere di studiare, però ritengo che il suo aderire al principio dello shinkenshōbu debba avere quel valore che per lo più non viene neanche considerato per ignoranza. Ogni tecnica di Aikidō nel momento che viene messa in atto ha già superato due stadi: l’atemi e il kokyūnage, intendo dire che uke viene considerato così bravo da essere stato in grado di avere evitato il contrattacco immediato, l’atemi di risposta, e il completo sbilanciamento iniziale che porti ad uno squilibrio senza ritorno, il kokyūnage. È solo quando uke è stato in grado di sopravvivere a questi due fattori che tori si trova nella condizione di dover eseguire un waza (tecnica) completo. Il contesto storico è in accordo con questa idea, coperti dall’armatura su un campo di battaglia si avevano buone possibilità di sopravvivere ad un colpo portato a mani nude, e dato quanto fosse grave cadere a terra in mezzo ad una mischia ricercare un equilibrio precario era un opzione migliore del cercare la lotta a terra. Data la valenza del concetto di shinkenshōbu nell’Aikidō bisogna capire che non c’è limite alla natura dei colpi che possono essere portati, e quindi presi in considerazione. Se un Aikidōka viene toccato sul viso non starà lì a sindacare se ci fosse forza sufficiente per provocargli un knock out o meno, egli resta consapevole che avrebbe potuto perdere l’uso degli occhi comunque, e quindi essere incapacitato dalla possibilità di difendersi dal successivo attacco mortale. È per questa considerazione che il suo modo di muoversi e di salvaguardarsi risponde ad una logica protettiva ben diversa da quella a cui lo sport e un certo giocare ci hanno educati. Se il suo avversario è in grado di toccarlo alle spalle non sarà nella tranquillità di chi è protetto da un regolamento ma il contrario, sarà consapevole del pericolo e sceglierà di riposizionarsi anche se ciò lo squilibria ulteriormente. La difesa della linea centrale assumerà una connotazione molto differente ed incomprensibile ai più. Se volete essere in grado di immaginare il modo di pensiero che guida l’azione e la reazione di chi fa Aikidō basta visualizzare un avversario armato di un coltello lungo e affilato, quanto credete debba colpire forte per recidere un’arteria?
Eccoci tornati in modo circolare allo shinkenshōbu, il confronto con una lama vera. Quando si confronta il contesto sportivo con il Budo si cade nell’errore perché non si riesce a cambiare modalità di pensiero, questo porta a confrontare un modo di allenamento con un’impostazione di un sistema che è tutt’altro. Immaginate di essere usain bolt, l’uomo più veloce del mondo, in grado di muovervi in modo organizzato, efficiente e perfettamente armonico, e che vi offrano la visione di un eschimese che si muove nella neve con le ciaspole con la sua andatura da pinguino, sareste in grado di comprendere e valutare il fattore neve? Riuscireste a distinguere la differenza tra il gioco della corsa, eseguita su un tracciato, e il muoversi per sopravvivere?
Nella sfera dell’Aikidō questo modo di pensare appartiene sia a Tori che ad Uke. Tori, evitato l’attacco iniziale e creata la condizione di musubi, dove egli è in grado di percepire chiaramente il centro e l’asse del compagno, deve estendere il suo controllo fino al termine della tecnica cosciente di non dover offrire una seconda apertura alla lama del partner. Uke, una volta portato il suo attacco iniziale, cosciente di essere esposto deve mantenere la sua intenzione aggressiva ed allo stesso tempo evitare il colpo finalizzante della lama di Tori, questo gli richiede un movimento che viene definito in modo poco comprensibile ai profani “connesso”. È un termine strano, che potremmo accompagnare con uno equivalente come cosciente o consapevole. Se non si comprende il sottinteso di questa connessione non si può essere in grado di giudicarlo, è come guardare una persona muoversi in modo strano su un campo accidentato senza sapere per esempio che si trovi sotto il tiro di un cecchino.
La tensione creata dalla condizione di shinkenshōbu ha un riflesso “spirituale”, essa costruisce e richiede un livello di concentrazione estrema che esclude tutto ciò che non è l’azione e il presente del momento. Allora anche il gioco, il semplice allenamento diventa mortalmente serio, e il silenzio conquista la pratica e il praticante lascia cadere il costrutto con cui si presenta alla società per confrontarsi con se stesso e conoscersi.