Il terzo giorno ad orario pieno si è concluso, molta fatica ma anche il piacere di aver praticato e lavorato molto. La cosa che mi ha colpito di più oggi sono le donne con cui ho praticato. Diverse universitarie ed anche qualche signora più grande, e tutte in grado di gestire sul piano tecnico e della connessione la pratica senza problemi. Forse questa è una delle qualità che mi piace di più della pratica definita “soft” del maestro Endo. Ponendo l’attenzione sulla connessione tra i due praticanti la maggior parte delle volte anche il “confronto agonistico” si pone di più sul sentire dove è possibile portare uke nello squilibrio che non sul chi è più forte. Certo capita sempre qualche praticante più “resistente”, soprattutto tra gli uomini di una certa età, però diventa un esercizio per noi stessi a non entrare in una mentalità competitiva. Il maestro ha continuato a lavorare molto su katateryotetori, Shomenuchi e Ushirowaza ryotetori, sottolineando sempre la connessione che si crea nello stesso modo quando uke cerca di sollevare le braccia e Tori le distende naturalmente verso terra. Sono riuscito a vedere un collegamento che il maestro ha sottolineato tra le sua forma di nikyō omote e kaitennage, e a cogliere il timing del momento di applicazione sul “rimbalzo” di uke, è stato quasi un caso ma sono riuscito a registrarlo.
Dopo la lezione un altro giro alle onsen, perché l’effetto sui muscoli è stato molto buono, quindi ripetiamo volentieri. Tornando con un po’ di calma in bici ho avuto modo di guardare il paesaggio e sembra davvero una zona molto bella, all’orizzonte si levano in cielo delle mongolfiere per un festival che si terrà il 5 maggio, le montagne, e ancora qualche ciliegio in fiore. Domani orario ridotto, dalle 13 alle 15 si terrà un enbu, e poi un’ora di pratica dalle 15 all 16.
Non so se faremo in tempo a fare un altro giro alle terme perché alle 18 ci sarà il party e i preparativi in dojo vanno avanti da giorni.
Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 2
Oggi è stata una giornata di pratica intensa e la fatica comincia a farsi sentire, soprattutto nelle gambe. I primi tre giorni del seminario l’orario delle lezioni va dalle 11 alle 15, quattro ore di pratica intervallate da una breve pausa di trenta minuti. Il bel tempo ci ha permesso di andare in bici dal dojo fino al Budō hall di Saku, un buon riscaldamento in pratica. Avvicinandosi il fine settimana si è vista parecchia gente in più sul tatami, e infatti anche al dojo la sera i futon coprono ogni centimetro quadrato del tatami.
Il maestro è tornato a chiederci cosa sentiamo quando eseguiamo la tecnica, ha sottolineato la necessità di non focalizzarsi sul far cadere il partner e a concentrarci invece sul muoversi liberamente. Quando riusciamo a muoverci liberamente, restando connessi con uke avverrà naturalmente ad un certo punto uno squilibrio tale che uke cada. Se il nostro kimochi, la nostra sensazione interiore non è piacevole non saremo in grado di muoverci liberamente. Per esempio nella pratica del suburi di Shomenuchi riusciamo a muoverci bene, ma nel momento in cui lavoriamo in coppie subito la foga di colpire cancella la sensazione piacevole precedente. Endo sensei ci tiene a sottolineare di aver ripetuto queste cose svariate volte, ed anche la pratica tecnica è tornata sugli stessi elementi ma da diversi approcci, in Ushirowaza, Shomenuchi e katateryotetori.
Dopo l’allenamento siamo andati a goderci le onsen, i bagni termali, nella speranza che l’alternanza vasche fredde e calde aiutasse la circolazione e il recupero dall’affaticamento muscolare, comunque siamo usciti morbidi come delle meduse, speriamo che aiuti. La sera dopo cena nella sala antistante la cucina si sta insieme a scambiare chiacchiere e a conoscere meglio chi magari abbiamo incontrato per la prima volta sul tatami. si raccontano i viaggi e le esperienze che si sono accumulate. E poi via a dormire per un meritato riposo.
Giappone 2.0 e Aikidō: giorno 1
Ci siamo svegliati presto e dopo un giro veloce sullo Shinkansen che va in direzione Chiba, scendiamo a Sakudaira la stazione di Saku, città natale del maestro Endo. Qui i primi cinque giorni di Maggio e gli ultimi di Agosto si tiene un seminario intensivo guidato da Endosensei.
Il paesaggio ed il clima sono molto diversi, ci troviamo nel centro del Giappone e la primavera fa un po’ di fatica ad arrivare, delle belle catene montuose caratterizzano i dintorni. A Saku si trova il dojo aperto dal maestro Endo ed ora custodito e guidato da un suo allievo Arigasensei. Siamo troppi per poter praticare nel dojo, quindi le lezioni si tengono nel Budōkan di Saku (il locale palazzetto per le arti marziali) ma il dojo resta il cuore di tutte le attività che non si svolgono sul tatami.
Si può essere ospitati e dormire con il futon sul tatami, cenare tutti insieme avendo collaborato alla preparazione del pasto, e trascorrere la serata scambiandosi opinione e conoscendo nuove persone.
Fa un po’ impressione vedere l’organizzazione messa in piedi da Arigasensei, che pure restando il chiaro timoniere riesce ad essere vicino a tutti.
La lezione del maestro Endo è chiara, e si apre con un discorso che sottolinea non tanto cosa sia l’Aikidō ma perché e come dobbiamo praticarlo. Porre la propria attenzione a come possiamo far funzionare il corpo, al perché ci comportiamo in un certo modo, al creare una connessione con il partner e al perché questi ci risponde in una determinata maniera, liberandosi dalla voglia di sopraffare e proiettare, è al centro dell’insegnamento del maestro. Senza considerare poi il valore aggiunto di poter praticare con i suoi ottimi studenti che finora avevi solo ammirato nei video delle sue dimostrazioni, Arigasensei, Shimizusensei, Oiwa sensei, ti costringono a lavorare restando presente al 100%.
Giappone e Aikidō 2.0: il lungo giorno 0
Questa volta sono tornato in Giappone scommettendo su una stagione ed un clima nettamente migliori. La mia prima esperienza a Tokyo gli ultimi giorni di agosto era stata ai limiti dell’insostenibile. Dopo un luglio a riposo forzato, il caldo sostenuto e l’umidità altissima, la pratica all’hombu dojo era stata molto difficoltosa, e meno godibile di quanto avessi sperato.
Questa volta ho puntato alla fine di aprile e prima metà del mese di maggio, unici inconvenienti evitare il fermo delle attività legato alla golden week e il sovraffollamento dell’hombu dovuto al richiamo dell’imminente All Japan Demonstration. Quindi con un quasi perfetto incastro, si è partiti il 27 aprile per godersi tre giorni a Kyoto da turisti (sono accompagnato da Roberto e Giancarlo), purtroppo il dojo di Okamotosensei era chiuso, e poi spostarsi dall’1 al 5 a Saku per lo stage di Endosensei.
Dal 6 a Tokyo per altri 9 giorni di pratica all’hombu dojo fino al rientro in Italia del 15, tenendosi lontani dall’All Japan enbu del 27.
I tre giorni a Kyoto sono stati magnifici ed impegnativi. Rivedere il Kiyomizudera (il tempio con una stupenda terrazza che si affaccia sul fianco della montagna e offre una vista bellissima), il Kinkakuji (noto come il padiglione d’oro), i bellissimi giardini Zen di pietra dei templi Daiseiin e Zuihouin nel complesso del Daitokuji e del Ryoanji, e la natura racchiusa nel tempio del Ginkakuji, è stata un’esperienza bellissima e profonda. Arricchita dalle osservazioni di Roberto, bonsaista amatoriale, su come vengano curate alberi e piante in questi giardini apparentemente naturali ma armoniosamente controllati dall’uomo. Domani mattina si parte presto per Saku, vicino Nagano e dalle 11 tutte le nostre energie saranno spese sul tatami sotto la guida del maestro Endo.
Vi tengo aggiornati
Ciao Marco
Il metodo nell’Aikidō
La mia idea di pratica secondo un metodo nell’Aikidō è stata profondamente influenzata dall’incontro con il maestro Fujimoto e la sua didattica. Ho cominciato a praticare nel 1995 e nel ‘99-2000 ho frequentato il mio primo stage con il maestro Fujimoto, il mio insegnante di allora spingeva molto perché mi avvicinassi al suo lavoro, ma sinceramente, da quelle poche occasioni di un fine settimana, non restai molto impressionato, dal punto di vista dell’eccezionalità tecnica ero molto più sorpreso dal maestro Hosokawa. Poi nel 2001 per sostenere l’esame di shodan frequentai i 5 giorni dello stage di fine dicembre a Milano e per me si aprì un mondo. Il maestro Fujimoto in nove lezioni dispiegò un sistema tecnico estremamente chiaro, e soprattutto organizzato. Le tecniche venivano costruite in modo progressivo dagli attacchi più di base a quelli più elaborati, imperniate su dei movimenti fondamentali del corpo che si ripetevano nella stessa tecnica. Un movimento caratterizzava le forme omote, oppure la conclusione di tutte le tecniche di proiezione, un altro movimento le forme ura. Le forme di nikyō, sankyō, yonkyō potevano essere tutte costruite sulla base di ikkyō e questo a sua volta essere caratterizzato dall’iniziare da un rapporto aihanmi o gyakuhanmi delle posizioni reciproche. Il maestro aveva impostato una struttura ben organizzata di tecniche caratterizzata da movimenti ricorrenti e da dettagli e variazioni che si aggiungevano nella progressione, ma questo era solo il 50% del valore del suo lavoro. L’altra qualità del maestro era come veniva presentata la sua organizzazione tecnica, in ogni seminario il maestro seguiva un filo logico, impostandolo su un movimento od un uscita specifica, presentandola e sviluppandola, poi lasciandola per impostare un secondo lavoro particolare e infine riprendendola intrecciando insieme i due lavori. Questo modo di presentare un aspetto specifico di tutta la struttura dava una grande fluidità al lavoro svolto sul tatami, e ci si trovava a partire da un katatetori aihanmi e a finire in munetori menuchi anche se il gruppo di praticanti era molto eterogeneo nel grado e nelle capacità. Inoltre anche lavori soggetti ad essere ripetuti più volte venivano presentati sotto una luce differente in modo da restare sempre interessanti. Queste qualità diventavano manifeste sui tatami di Milano e Laces, in particolare proprio nell’Aikidō dei partecipanti allo stage. Potevi lavorare con dieci persone differenti in una lezione e riuscire a partire da un linguaggio comune con tutte e dieci, e all’interno di questo linguaggio concentrarti sulla particolare espressione proposta in quel momento. Avere un “sistema” non vuol dire però creare una struttura granitica, soggetta alla ripetizione e alla monotonia. Il maestro Fujimoto nei suoi quasi 40 e passa anni di insegnamento ha conosciuto una costante evoluzione tecnica, e a mio parere strettamente personale specialmente negli ultimi 10 anni questa evoluzione aveva una profonda connotazione didattica. Le tecniche del sesto e quinto kyū venivano a modificarsi per creare una base ed introduzione a tecniche molto più complesse che le avrebbero riprese più avanti, tecniche avanzate venivano semplificate per presentare solo le differenze necessarie rispetto ai moduli di base.
I quattro elementi che caratterizzavano il metodo del maestro in sintesi erano: struttura organizzata e logica delle tecniche, capacità di presentare tale organizzazione sottolineando un particolare filo logico, costruire una comunità che condivide un linguaggio universale, revisionare il lavoro tecnico evolvendolo in senso pratico e funzionale.
Questi elementi secondo me non connotano esclusivamente il lavoro del maestro Fujimoto ma caratterizzano un vero approccio moderno nel metodo ad una disciplina di natura tradizionale.
Il mio desiderio è che l’Aikidō che perseguo, degli insegnanti che prendo come riferimento, e che condivido con i miei amici ed allievi rispetti i requisiti di questo metodo.
Potrebbe interessarvi una serie di appunti che sto raccogliendo in questa sezione del sito.
To lose or to win by a real sword
Shinkenshōbu
真剣勝負
The word by word translation of theese japanese four kanji is: real-sword-victory-defeat, put simply to win or to lose by a real sword. Real sword means a blade that can actually cut, not just a iaito (a replica of a sword with no cutting edge that is used in training kenjutsu), a sword that can strike a fatal blow. The meaning of this saying is “fighting for your life (or death)”, and it implies the danger is so great that in the end you can loose your life for real, no playing, be aware and act accordingly.
Osensei wrote that in true Budō, and Aikidō is the ultimate manifestation of Budō, there is no kind of competition, above all no sportlike competition, because of its true nature which is shinkenshōbu.
Any kind of sport contest, even the more gory ones like some mma fighting, must obey to some rules so that to have at least some kind safety standard, this way the lives of the contestants are guaranteed. But this thinking is just the opposite of shinkenshōbu. The wide of this gap is properly true to me, but for the people who trains any kind of martial sport, or shallowly dip in the self defence study, there’s not such clear understanding.
Shinkenshōbu means that any action is allowed, it has only to be weighted on the scale of reaching life and escaping death, it doesn’t have to answer to a set of established rules or any kind of referee ruling. A sportlike contest has no common ground with this way of thinking, and according to Osensei doesn’t belong to the Budō sphere, or to the so often ill-labelled martial arts.
The fans and the ones practicing fighting sports believe that this kind of contest is the most truly realistic, the violence showing, the strenuous effort needed, the high percentage of serious damage may be true but if first of all you are preventing any chance of dying, or you are trying to prevent it, what is the true nature of this kind of contest? If you fight to survive, but remove any chance of dying, you are just playing a game, dangerous, violent, bloody but still nothing more of a game.
I’ll try giving some evidence of this, let’s look at strikes to the back. There’s no fighting sports where striking the back of the head or neck from the back is allowed. If you wilfully strike at the nape you’ll get immediately disqualified. Because of this, techniques of leg swiping and fight to the ground are getting such relevance. But, when a fighter dives trying leg swiping with both his arms, he really exposes his neck to a permanently disabling elbow strike. An elbow strike of this kind is not allowed, it’s too dangerous, and leg swiping must be stopped with techniques that are not so effective, so that leg swiping and ground fighting are at such a high popularity.
Always because of a permanent disabling effect eye gouging, trachea grabbing, striking to testicles, finger locks, and many others moves are not allowed. Because of this to build a muscle armour in fighting sport has such importance, and brought forward weight classes and such nonsense. In what kind of fighting, that wishes to have a realistic approach, can exist weight classes? Can you imagine warrior asking to each other how many kilos is their weight on a battle ground? Nature is true evidence that such way of discrimination in fighting for survival has no meaning, the opposite is true.
I’m not pushing forward the idea that Aikidō is more realistic than fighting sports, it has its own flawed way of translating reality to a schematic pattern, with his striking molded on vectors, his absorbing techniques and continuous pressure that are expression of a dilated time perception that goes with study in sensitivity. But I think that his adhering to the shinkenshōbu principle is something which get always neglected by people of fighting sports.
Every technique of Aikidō happens when uke, the one who attacks, is able to survive the most immediate counterattack: atemi, the striking to vulnerable spot of the body, and the no turning back unbalancing of a kokyūnage. If uke goes quite unscathed over this answer Tori will have to exercise his control using a waza, an Aikidō technique.
A deep understanding of this may happen if we look at the kind of fighting that was taking place on the battleground of past wars, with the protection of heavy armours one was quite immune to empty handed strikes, and tried to avoid at all cost to fall to the ground in the middle of a melee, he would rather try moving from an unbalanced condition to the next to get back his grounding.
The shinkenshōbu principle, in Aikidō, allows strikes of any kind, no limitations at all, and “fighters” takes this in account. If you are an Aikidōka, and you let yourself be touched on your face, quarrelling whether the strike was strong enough to knock us out or not is meaningless, you must be aware that you could have lost your sight and got unable to go on. No referee is giving you a break if you let your nuts be stricken. No one is getting disqualified if he is so good to strike on your back. Because of this a really different way to answer to strikes and menaces comes forward. Awareness of not exposing your body in any way will have you choose unbalanced movement over any kind of parring or closed guard. To defend your central line and axis is the first product of this way of thinking, and if you cannot embrace this way of looking at a fight you have no chance of understanding.
If you truly would like to understand the course of action, and reaction, of an Aikidōka try visualising your enemy armed with a long and sharp knife, how much strength is needed in one blow to cut an artery?
See, we are back to shinkenshōbu, fighting with a real sword.
When you look at Budō the same way you look at sport fighting you are prey to the same mistake again and again, the method of learning, exercising follows a different path, which is not in any way equivalent.
Just for sport let’s try pretending being Usain Bolt, the fastest man on earth. You are able to move in a highly organised way, efficient and perfectly harmonious in a specific setting like a track. If someone showed you a video of an Eskimo, walking in his snowshoes, swaying like a penguin, would you be able to consider the effect of the snow on movement? Are you able to differentiate between the game of running on a track and having to move surviving in harsh conditions?
In Aikidō both Tori and Uke must answer the shinkenshōbu principle. Tori must evade the first strike and allow for musubi, the connection, to happen. There he can perceive clearly the center and central axis of Uke, so that he can exercise his control all along the execution of the technique to the end without giving up new openings to the blade of the attacker. Uke, after trying his first sincere strike, must keep on being aggressive in his connection, always being aware as much as possible to avoid any immediate sanctions.
This word “connection” frequently used in Aikidō is equivalent to being aware on many different levels, body, will, mind, breath and so on. If you cannot grasp the underlying of shinkenshōbu you’ll be just the same as someone looking the erratic movement of a man without knowing he is a prey to a sniper.
Shinkenshōbu way of thinking gives our daily practice a deeper meaning, it’s the fertile soil to a spiritual tension, it asks for absolute concentration, takes away anything that doesn’t belong to the moment and brings you to the present. This way the daily training of Aikidō is no more a playful practice, silence comes to you, and you have no way to keep pretending to be the someoneelse that you show in the face of society, you are your true self.
Come rematori affiatati
Quando si guarda ad un anno didattico che sta per cominciare la prima domanda che ci si pone è “quale indirizzo dare alle lezioni? Su cosa si vuole lavorare in particolare?”. Non sono domande semplici ed è necessario avere prima di tutto chiaro quale sia stato il risultato dell’anno precedente. Aver osservato i propri allievi agli esami di fine corso, i punti critici su cui si sono arenati, la loro partecipazione alle lezioni e ai seminari che si sono proposti è importantissimo. Ogni responsabile di dojo lo fa per i propri allievi, ma allo stesso tempo è necessario anche che l’insieme degli insegnanti che perseguono una didattica condivisa cerchino di fissare un obiettivo comune, confrontandosi tra loro, ma anche con gli allievi altrui che come uno specchio appena pulito restituiscono un’immagine più fresca. Ritrovarsi insieme tra dojo diversi ad inizio anno diventa così un’ottima occasione per porre le fondamenta e tracciare un percorso di un nuovo anno didattico, più immersiva sarà l’esperienza e maggiore sarà il profitto, nasce così l’idea di uno stage residenziale. Chi ha avuto la fortuna di frequentare lo stage di Laces condotto dal maestro Fujimoto può già aver vissuto parzialmente questa esperienza, laces è un paese abbastanza piccolo e chi frequenta il seminario si ritrova spesso fuori dal tatami anche a pranzo e cena condividendo molto tempo assieme. In quell’occasione però era il maestro che tirava le fila dell’anno passato dal punto di vista didattico e piantava i semi per quello a venire, ed allo stesso tempo ci osservava, me ne rendo conto ora, con davvero un’enorme pazienza. A Macerata ci ritroveremo quest’anno con il proposito di costruire tra dojo diversi un legame simile a quello che siamo stati così fortunati da aver potuto costruire tra noi insegnanti quando il maestro ancora ci accompagnava. Da venerdì 7 settembre fino a domenica 9, insegnanti e allievi saranno ospiti della stessa struttura, praticando sul tatami, studiando jo e bokken all’aperto, vivendo insieme i momenti conviviali, in modo da conoscerci e abbattere in modo sincero le barriere tra alto e basso. Non c’è praticante di Aikido che possa giovarsi nella pratica nell’isolamento, e più di qualunque lascito tecnico il maestro Fujimoto ha inculcato in noi l’idea che progredire nell’Aikido vuol dire trovare persone con cui praticare in modo paritario, nel senso del rispetto reciproco delle proprie capacità e livello. Se qualcuno è più bravo di noi dobbiamo dare il nostro massimo e approfittare per apprendere di più, se qualcuno lo è di meno dobbiamo adeguarci alle sue capacità ma restare allo stesso tempo stimolanti. Trasmettere questa idea di pratica nel concreto non è semplice, bisogna davvero trovare persone che con affiatamento si pongano lo stesso obiettivo, magari proprio perché sono state educate nello stesso momento, ed è per questo che credo che lavorare con Fabrizio, Koji e Laura sia così importante per me e i miei allievi. Che abbiate avuto l’opportunità di seguire il maestro Fujimoto o meno, se credete che praticare Aikido voglia dire confrontarsi sinceramente, e in modo affiatato senza timore costruire una pratica che non è dimostrativa ma costruttiva allora spero di ritrovarvi a Macerata per questo stage residenziale. Non siamo dei grandi maestri ma seguiamo con tenacia un grande insegnamento.
Vincere o perdere contro una spada vera
Shinkenshōbu
真剣勝負
La traduzione letterale di questa espressione sarebbe: vero-spada-vincere-perdere, ovvero vincere o perdere con una spada vera. Per spada vera ci si riferisce ad una lama realmente affilata, non uno iaito (spada dal filo smussato che si usava e si usa nell’allenamento di kenjutsu), in grado quindi di assestare un colpo mortale. Da questo si arriva per traslato a “combattere in condizioni di vita o di morte”. In italiano si usa spesso l’espressione “questione di vita o di morte” per indicare una situazione di rischio così reale e grave il cui esito finale può solo essere la vita o la morte di chi vi ci si trova. In questa situazione diciamo spesso bisogna essere mortalmente seri, ma nel nostro caso sarebbe meglio dire “mortalmente” consapevoli. Osensei ha sempre insistito che nel vero Budo, a cui ascriveva l’Aikidō, non ci potessero essere forme di competizione, ancor peggio in forma sportiva, e che il motivo fosse proprio la condizione di shinkenshōbu. Una qualunque forma di competizione sportiva, anche la più cruenta come gli sport da combattimento, deve sottostare ad un regolamento che stabilisca un minimo di condizioni di sicurezza, così da preservare la vita di chi vi partecipa se i competitori rispettano le regole stabilite. Ma questo concetto è profondamente antitetico con quello di shinkenshōbu. Personalmente questa antitesi la trovo evidente ma per buona parte di coloro che si muovono negli sport da combattimento, o che si interessano e ruotano attorno al mondo della cosiddetta difesa personale non lo è altrettanto.
Shinkenshōbu vuol dire che qualunque azione può essere intrapresa restando però profondamente consapevoli che il suo peso va giudicato a seconda che il suo esito finale sia la vita o la morte, e quindi non ha senso sottostare o stabilire regole prefissate per convenzione o peggio per arbitrarietà. Il contesto sportivo non può appartenere a questa categoria di pensiero, e per Osensei non può far parte del mondo del budo, a quelle che in modo poco informato vengono chiamate arti marziali. Chi segue o partecipa agli sport di combattimento ritiene che queste forme di lotta siano le più realistiche possibili, la loro violenza, la fatica che richiedono, il rischio e gli infortuni che ne conseguono possono assumere questa valenza, ma se la prima cosa che viene esclusa, o si cerca di escludere, perché alla fine un incidente mortale può comunque avvenire, è il pericolo mortale allora questa lotta cosa significa? Lottare per sopravvivere quando si esclude in primis la morte è alla fin fine un gioco, violento pericoloso ma pur sempre un gioco. Vi faccio un esempio che secondo me ne è una chiara dimostrazione: i colpi da dietro. Non c’è sport di combattimento che ammetta colpi quando l’avversario vi rivolge la schiena, colpire volutamente la nuca ad esempio vi squalifica immediatamente, questa scelta ha permesso il proliferare delle tecniche di placcaggio, e di conseguenza quelle a terra. Quando si tenta un placcaggio ci si espone al rischio di una gomitata invalidante alla nuca, ma essendo tale colpo vietatissimo il placcaggio può solo essere contrastato con alternative meno efficaci e immediate, il che ne determina il suo uso “indiscriminato”. Non sono ammessi colpi agli occhi, alla trachea e ai genitali, e neanche leve alle dita, tutte zone troppo morbide o flessibili che riceverebbero danni irreversibili o invalidanti, questo ha avuto come conseguenza però la divisione per categorie di peso che è proporzionale alle “corazze” muscolari. Ma in quale lotta davvero realistica ci si divide per peso? La natura è la più chiara dimostrazione che la lotta per la sopravvivenza non opera tale distinzioni, anzi se discrimina lo fa con lo scopo opposto, per esempio tutti i predatori se possono attaccano gli individui più deboli.
Adesso non voglio sostenere che l’Aikidō sia più realistico degli sport da combattimento, anch’esso per un suo verso risponde ad un modo preciso di modellizzazione della realtà, con i suoi attacchi convenzionati, spesso vettoriali, il suo modo di ricevere le tecniche e di continuare ad agire che risponde ad una logica di amplificazione temporale ed estensione della sensibilità per permettere di studiare, però ritengo che il suo aderire al principio dello shinkenshōbu debba avere quel valore che per lo più non viene neanche considerato per ignoranza. Ogni tecnica di Aikidō nel momento che viene messa in atto ha già superato due stadi: l’atemi e il kokyūnage, intendo dire che uke viene considerato così bravo da essere stato in grado di avere evitato il contrattacco immediato, l’atemi di risposta, e il completo sbilanciamento iniziale che porti ad uno squilibrio senza ritorno, il kokyūnage. È solo quando uke è stato in grado di sopravvivere a questi due fattori che tori si trova nella condizione di dover eseguire un waza (tecnica) completo. Il contesto storico è in accordo con questa idea, coperti dall’armatura su un campo di battaglia si avevano buone possibilità di sopravvivere ad un colpo portato a mani nude, e dato quanto fosse grave cadere a terra in mezzo ad una mischia ricercare un equilibrio precario era un opzione migliore del cercare la lotta a terra. Data la valenza del concetto di shinkenshōbu nell’Aikidō bisogna capire che non c’è limite alla natura dei colpi che possono essere portati, e quindi presi in considerazione. Se un Aikidōka viene toccato sul viso non starà lì a sindacare se ci fosse forza sufficiente per provocargli un knock out o meno, egli resta consapevole che avrebbe potuto perdere l’uso degli occhi comunque, e quindi essere incapacitato dalla possibilità di difendersi dal successivo attacco mortale. È per questa considerazione che il suo modo di muoversi e di salvaguardarsi risponde ad una logica protettiva ben diversa da quella a cui lo sport e un certo giocare ci hanno educati. Se il suo avversario è in grado di toccarlo alle spalle non sarà nella tranquillità di chi è protetto da un regolamento ma il contrario, sarà consapevole del pericolo e sceglierà di riposizionarsi anche se ciò lo squilibria ulteriormente. La difesa della linea centrale assumerà una connotazione molto differente ed incomprensibile ai più. Se volete essere in grado di immaginare il modo di pensiero che guida l’azione e la reazione di chi fa Aikidō basta visualizzare un avversario armato di un coltello lungo e affilato, quanto credete debba colpire forte per recidere un’arteria?
Eccoci tornati in modo circolare allo shinkenshōbu, il confronto con una lama vera. Quando si confronta il contesto sportivo con il Budo si cade nell’errore perché non si riesce a cambiare modalità di pensiero, questo porta a confrontare un modo di allenamento con un’impostazione di un sistema che è tutt’altro. Immaginate di essere usain bolt, l’uomo più veloce del mondo, in grado di muovervi in modo organizzato, efficiente e perfettamente armonico, e che vi offrano la visione di un eschimese che si muove nella neve con le ciaspole con la sua andatura da pinguino, sareste in grado di comprendere e valutare il fattore neve? Riuscireste a distinguere la differenza tra il gioco della corsa, eseguita su un tracciato, e il muoversi per sopravvivere?
Nella sfera dell’Aikidō questo modo di pensare appartiene sia a Tori che ad Uke. Tori, evitato l’attacco iniziale e creata la condizione di musubi, dove egli è in grado di percepire chiaramente il centro e l’asse del compagno, deve estendere il suo controllo fino al termine della tecnica cosciente di non dover offrire una seconda apertura alla lama del partner. Uke, una volta portato il suo attacco iniziale, cosciente di essere esposto deve mantenere la sua intenzione aggressiva ed allo stesso tempo evitare il colpo finalizzante della lama di Tori, questo gli richiede un movimento che viene definito in modo poco comprensibile ai profani “connesso”. È un termine strano, che potremmo accompagnare con uno equivalente come cosciente o consapevole. Se non si comprende il sottinteso di questa connessione non si può essere in grado di giudicarlo, è come guardare una persona muoversi in modo strano su un campo accidentato senza sapere per esempio che si trovi sotto il tiro di un cecchino.
La tensione creata dalla condizione di shinkenshōbu ha un riflesso “spirituale”, essa costruisce e richiede un livello di concentrazione estrema che esclude tutto ciò che non è l’azione e il presente del momento. Allora anche il gioco, il semplice allenamento diventa mortalmente serio, e il silenzio conquista la pratica e il praticante lascia cadere il costrutto con cui si presenta alla società per confrontarsi con se stesso e conoscersi.
Viaggio in Giappone e Aikido: giorno 8 e 9
Lunedì mattina la temperatura e l’umidità hanno ricominciato ad alzarsi, arrivato all’hombu ho trovato quelli che avevano fatto il primo turno sconvolti, un nutrito gruppo di stranieri arrivati tutti insieme aveva portato i praticanti a più di 80 presenze rendendo l’aria oltre l’afoso e l’irrespirabile. Comunque sono riuscito finalmente a praticare ad una lezione di Kanazawasensei. Stilisticamente molto simile al Doshu, ma con un’enorme passione per lo spiaccicamento su iriminage. Avevo una donna giapponese sulla sessantina come uke, che tra l’altro teneva un ritmo di pratica da fare impallidire più della metà della gente che conosco sul tatami, e con la scusa di correggerla Kanazawasensei si è divertito molto a spalmarmi a destra e sinistra. Davvero piccolo di statura, ma chiaro nel movimento, l’ho trovato davvero divertente. Poi un po’ di giri a spasso per Tokyo fino al doppio turno serale con Yokota sensei. Ancora delle lezioni molto belle tecnicamente, con certi elementi di kokyunage che si ripetono e vengono riproposti con qualche sfumatura diversa in altre attacchi oltre lo shomenuchi. C’è una variante di uchikaitennage che gira ad iriminage che a velocità reale ho trovato ai limiti del micidiale. Mi è capitato di praticare nelle due ore con due ottimi uke, John, un americano che vive lì, e Toritani sensei, un’allievo di Yokota sensei, per cui fa spesso da uke. Sono state due ore divertenti ma anche impegnative. Peccato per un cambio di direzione su ikkyo in suwariwaza che mi ha malridotto il gomito sinistro, spero si riprenda per martedì, che ho due lezioni che mi interessano molto, Yasuno sensei a cui avevo rinunciato la settimana prima per il caldo terribile dell’ora di Waka sensei, ed un altro doppio turno con Osawasensei che sarà il termine della mia pratica all’hombu a questo giro.
Anche martedì ancora caldo e umido in risalita, da Yasunosensei ho trovato un giapponese di nome Kan che mi aveva chiesto di praticare insieme alla prima maoccasione e così abbiamo fatto un’ora di tecniche che variano da kokyunage ad iriminage in modo spesso sottile. L’aikido del maestro Yasuno è un po’ misterioso per me, non riesco a decifrarlo molto, eppure ne sono affascinato. Fatto da lui sembra semplice, ma quando lo provi tu davvero ti senti incapace a riuscire ad ottenere certi kuzushi, squilibri, in direzioni così inusuali e con awase nel timing così rapidi. Poi un po’ di trasporto bagagli all’hotel dove alloggia la mia famiglia, che mi ha raggiunto per la parte turistica del viaggio, e via di ritorno all’hombu per le ultime ore con Osawasensei. La prima ora ho praticato con Watanabesan, e la seconda con un americano molto bravo di nome Luis, anche lui fisso in Giappone da tempo. La lezione del maestro Osawa ha ripreso molti elementi che aveva illustrato al seminario estivo a Laces. A differenza della settimana scorsa il tatami era affollato fin dalla prima ora, e alla seconda abbiamo dovuto praticare alternati sui nagewaza, comunque nonostante il caldo e l’umido pesantissimi il maestro Osawa, come ho già detto, conduce la lezione con molta attenzione. Il braccio sinistro che era stato risparmiato nelle osaewaza, tecniche di immobilizzazioni, all’ora di Yasuno sensei ha retto giusto giusto. A lezione conclusa è stato molto triste salutare tutti ma il pensiero del viaggio che ancora mi attende mi entusiasma, visiterò Nikko, Kyoto, Nara, Osaka, Miyajima, Himeji, per tornare infine a Tokyo come turista. Non vi perseguiterò con un resoconto noioso di questa parte della mia permanenza in Giappone, ma vi aspetto al mio ritorno a Roma per ritrovarci sul tatami con la ripresa dei corsi dall’11 settembre. Trovate qui gli orari dei corsi!
Viaggio in Giappone e Aikido: giorno 6 e 7
Venerdì avevo deciso di provare a fare di nuovo tre ore complete il sabato, anche perché sembrava che la temperatura stesse scendendo lievemente. Invece una cena riunione con Vittorio, un ragazzo che da quattro anni vive in Giappone per formarsi marzialmente prima nell’Aikido e poi nel Brazilian jujitsu si è trasformata in una lunghissima chiacchierata finita alle 4 di mattina. È stato molto interessante perché Vittorio ha conosciuto molto bene l’ambiente dell’hombu dojo e sebbene se ne sia allontanato sa dirti di tutto su ogni insegnante, dal pettegolezzo alle qualità tecniche. Comunque sabato quando mi sono svegliato presto per la lezione di Ito sensei, con meno di 4 ore di sonno, ho fatto giusto in tempo a registrare il tasso di umidità invariato, un vago mal di testa, e a piazzare la sveglia per la lezione successiva del primo pomeriggio. Quindi nel primo pomeriggio Yokota sensei ha condotto una lezione tecnicamente sempre molto interessante. Alcune varianti che presenta davvero non sapresti dove le peschi se poi non ti mostrasse subito in parallelo il taglio di spada che le ha ispirate. È solo strano che quelli che hanno maggiori difficoltà a registrare queste forme siano i suoi allievi che le seguono abitualmente. Boh! Purtroppo proprio uno dei suoi, dopo una correzione mi ha tirato giù così forte che non sono riuscito a dissipare bene l’energia della caduta, ho preso una bella ginocchiata sul cementatami. Sono tornato parecchio frustrato a casa perché un’altra giornata con una sola ora di pratica mi sembra davvero sprecata, tanto più che Vittorio mi aveva raccomandato Sugawara sensei, l’istruttore dei due ultimi turni. Comunque impacchi di ghiaccio e una discreta, diciamo, irrequietudine hanno fatto si che fossi di nuovo sul tatami per l’ultimo turno. Ne è valsa la pena, sono riuscito a gestire il ginocchio e a godermi una bella lezione. Atmosfera concentrata ma con non molte persone, e soprattutto pratica alternata per avere ancora più spazio sul tatami. Per la prima volta da quando sono in Giappone non ho avuto l’impressione di arrivare al limite dell’autocombustione entro i primi 30 minuti. Le tecniche sebbene classiche usavano angoli un po’ diversi dal solito, che si traducevano anche in timing diversi da quelli soliti, è stata una buona occasione di studio per me e per la giapponese con cui lavoravo, che si è lasciata scappare un “muzukashii” (è difficile!) su un sankyo con un cambio mano volante. Tornato a casa il ginocchio non sembrava essere peggiorato ulteriormente e la mia preoccupazione per quanto sarei stato in forma allo stage di Endo si era sopita. Altro ghiaccio e un buon sonno e sarei stato pronto.
Domenica mattina il risveglio più piacevole della settimana, faceva, anzi fa fresco. Appuntamento con Kojisan per raggiungere Saitama, cittadina vicino Tōkyō dove il maestro Endo, dopo una dimostrazione di quasi due ore fa una lezione speciale. La prima sorpresa è incontrare all’arrivo Ariga sensei, responsabile del dojo di Saku, il dojo fondato da Endo sensei. Ho sentito tutti parlare benissimo di lui e dovevo riuscire a praticarci sul tatami. La dimostrazione è stata piuttosto noiosa, si sono alternati gruppi e maestri continuamente, spiccano giusto due maestri abbastanza giovani , ed un ragazzo che fa da uke ad un maestro un po’ più anziano, ho un occhio buono e alla lezione successiva tutti e tre insieme ad Ariga si alternano come uke di Endosensei. La lezione è una tipica lezione di Endo che pone l’accento come sempre sul non restare chiusi in una gabbia, si arrabbia, bonariamente, per le stesse cose, e propone esattamente lo stesso lavoro che propone in Europa. Mi sono divertito parecchio, ho fatto ben due giri con Arigasensei, e poi beh lo ammetto ho fatto il “pirata”. Sono lì che ti trovo sempre il tipo che non si fa fare la tecnica, o che mentre la fai ti accenna un atemi alle costole e improvvisamente realizzo che sono a Saitama, dico a Saitama, ma quando cavolo ci torno? Chi mi obbliga ad essere per forza gentile, non ho bisogno di amici a Saitama. E allora quando il mio compagno rompe le regole del gioco le rompo anche io, mi tocchi le costole? Ti metto un dito nell’occhio. Non mi fai fare tenchinage, o iriminage perché ti ritiri invece di venire contro e allora non ti faccio fare più niente neanche io me ne sto solo fermo e morbido. Devo dire che invece di prenderla a male qualcuno cambia atteggiamento, qualcun altro rosica e basta, mi stanno bene entrambi i casi. Ad ogni modo è molto di più la gente con cui si riesce a lavorare che quella no e le due ore volano. Bello ritrovare un livello di pratica piuttosto alto, ma riconosco che si parla di un seminario e non di un singolo dojo, questo vuol dire che già che la gente si sia mossa implica che pratichi in un determinato modo. Torneremo su questo discorso quando completerò la mia esperienza all’hombu. Domani che è lunedì finalmente trovo il maestro Kanazawasensei rientrato dall’Inghilterra, e poi un’altra iniezione di Yokotasensei.